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    Il petrolio, l’Iraq e l’America, politica e petrolio mediorientale

    24/11/2017 4 Mins Read
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    • Dei due slogan coniati dall’amministrazione Bush per vendere l’idea di invadere l’Iraq – insediare una democrazia e monopolizzare le ricchezze petrolifere del paese – quello sulla democrazia significa poco per la gente comune.
    • Le regioni del petrolio: storie e riflessioni
    • Le politiche di sfruttamento del petrolio mediorientale
            • note: Con il titolo Oil, Iraq and America l’articolo di Dilip Hiro è stato pubblicato sulla versione on-line di «The Nation» il 16 dicembre 2002. Dilip Hiro, saggista, giornalista, collaboratore di «The Nation» e di molti altri periodici, ha pubblicato numerosi saggi sul Medio Oriente, di cui il più recente è Iraq: In the Eye of the Storm, Nation Books, 2002.
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    Dei due slogan coniati dall’amministrazione Bush per vendere l’idea di invadere l’Iraq – insediare una democrazia e monopolizzare le ricchezze petrolifere del paese – quello sulla democrazia significa poco per la gente comune.

    Le riserve petrolifere dell’Iraq sono le seconde al mondo; è la prospettiva di potervi accedere in modo incontrastato, assicurando la fine della crescente dipendenza dal petrolio dell’Arabia Saudita (patria della maggior parte dei dirottatori dell’11 settembre) a eccitare l’immaginazione popolare negli Stati Uniti. E i falchi Usa, che determinano la politica verso l’Iraq, lo sanno.

    Le regioni del petrolio: storie e riflessioni

    È interessante notare come esista una singolare coincidenza di opinioni tra americani e iracheni, a livello sia ufficiale che popolare, riguardo alla centralità del petrolio dell’Iraq nella crisi attuale e nei precedenti conflitti con Baghdad. «Le armi di distruzione di massa sono solo una scusa. – afferma Tariq Aziz, vice primo ministro iracheno – Gli americani puntano al petrolio dell’Iraq.»

    Molti mesi prima, Muhammad Bagga, un anziano cittadino di Saddam City, Baghdad, mi aveva spiegato la Guerra del Golfo del 1991 con queste parole: «Le grandi potenze occidentali si sono infuriate perché Saddam Hussein con il petrolio iracheno ha voluto beneficiare tutti gli arabi; e così ci hanno attaccati».

    Seguendo il ragionamento degli alti funzionari del Pentagono, che presentano regolarmente ai media rassicuranti scenari di attacchi chirurgici contro il regime di Saddam e trascurabili `danni collaterali’, in America gli ottimisti del greggio prefigurano una straordinaria prosperità per le grandi compagnie petrolifere Usa, nel momento in cui il dittatore iracheno verrà spodestato.

    Dimostrando una deplorevole ignoranza degli eventi della Guerra del Golfo – quando le truppe irachene in ritirata incendiarono 640 pozzi in Kuwait – tale scenario non considera minimamente l’alta probabilità, o almeno la possibilità, che i seguaci di Saddam, esacerbati, diano alle fiamme i pozzi iracheni.

    È vero, questi incendi si possono spegnere, come avvenne in Kuwait. Ma tra allora e oggi vi è una differenza fondamentale. Mentre i soldati iracheni sgombrarono il Kuwait e tornarono a casa, i futuri sabotatori seguaci di Saddam, sostenuti da una minoranza vendicativa, da poco privata del potere, rimarrebbero nelle regioni del petrolio, rendendo pericoloso – per le compagnie petrolifere Usa – operare normalmente.

    Inoltre, la previsione del petrolio iracheno che scorre direttamente nei serbatoi americani si basa sull’accesso immediato, incontrastato che le compagnie Usa avrebbero sulla risorsa, quando il regime del dopo Saddam avrà strappato trenta importanti contratti per lo sfruttamento petrolifero che attualmente recano la firma del governo Saddam.

    iraq e petrolio

    È un’ipotesi alquanto irrealistica, considerando l’imponente schieramento di paesi forti, le cui compagnie petrolifere hanno siglato contratti con Saddam, e l’impossibilità di prevedere in che modo il suo regime verrà rimosso.

    E se venisse rovesciato da un colpo di Stato interno? La prevista disponibilità del nuovo regime nei confronti di Washington non si tradurrebbe automaticamente nella cancellazione di contratti con le grandi compagnie petrolifere di Francia, Russia, Cina, India, Canada, Spagna, Paesi Bassi, Vietnam e molti altri.

    L’alternativa è, naturalmente, un’invasione da parte degli Stati Uniti o di una coalizione a guida Usa, che conduca alla sconfitta e al rovesciamento del regime di Saddam. In entrambi i casi, stando ad analoghi esempi del passato, la rimozione dei massimi leader lascerà intatta la burocrazia, amministrativa ed economica, che – come prima – vorrà mantenere la continuità e rispettare gli impegni del passato. Così, nell’eventualità più ottimistica, le società petrolifere americane saranno trascinate in controversie legali, nazionali e internazionali.

    Le politiche di sfruttamento del petrolio mediorientale

    Il processo di acquisizione, da parte delle grandi compagnie di gas e petrolio non americane, del controllo delle abbondanti risorse irachene di idrocarburi – avviato nella primavera del 1997, in seguito al programma Onu `petrolio in cambio di cibo’ del dicembre precedente – diede sollievo agli iracheni e ristabilì la fiducia della comunità internazionale nella stabilità del regime di Saddam (a parte l’alleanza anglo-statunitense).

    Un consorzio di compagnie russe, guidate dalla compagnia pubblica Lukoil, acquisì il 75per cento delle azioni (contro il 25per cento dell’impresa statale Iraq National Oil Company) di una grande società mista per lo sfruttamento del giacimento petrolifero di West Qurna, nell’Iraq meridionale, con 11 miliardi di barili – un terzo delle riserve totali degli Usa – e greggio da estrarre assicurato per i prossimi ventitré anni. Poi si è aggiunta la China National Petroleum Corporation, che ha stipulato un accordo per sfruttare il giacimento di Adhab.

    Il loro esempio è stato seguito dalla francese Total Société Anonyme (ora TotalFinalElf), che ha ottenuto un contratto per lo sfruttamento del giacimento di Nahr Omar, nel Sud, ricco quasi quanto quello di West Qurna. Poi la Ranger Oil del Canada ha sottoscritto un contratto di 250 milioni di dollari per lo sfruttamento di giacimenti e l’esplorazione del deserto occidentale, cui è seguita la firma di un accordo per lo sfruttamento del giacimento di Tuba da parte dell’India’s Oil & Natural Gas Corporation e della Reliance.

    Da allora, il governo di Saddam ha stipulato contratti con compagnie petrolifere straniere a un ritmo sempre più accelerato; si prevede che alcuni di essi frutteranno profitti, secondo gli esperti del settore della Deutsche Bank, al tasso del 20per cento.

    Nel corso delle trattative che si sono svolte dietro le quinte per ottenere l’assenso di Mosca alla Risoluzione 1441 del Consiglio di sicurezza dell’Onu sul disarmo dell’Iraq, si dice che gli americani abbiano assicurato ai russi che i loro contratti per il petrolio con il regime di Saddam sarebbero stati rispettati. Se è così, certamente anche altri – tra cui i francesi, i cinesi, gli indiani e gli spagnoli – pretenderanno un eguale trattamento nei confronti degli accordi stipulati dalle proprie società con Baghdad. Così alle compagnie Usa rimarrà assai poco petrolio da estrarre, se ne rimarrà.

     

     

    note:
    Con il titolo Oil, Iraq and America l’articolo di Dilip Hiro è stato pubblicato sulla versione on-line di «The Nation» il 16 dicembre 2002. Dilip Hiro, saggista, giornalista, collaboratore di «The Nation» e di molti altri periodici, ha pubblicato numerosi saggi sul Medio Oriente, di cui il più recente è Iraq: In the Eye of the Storm, Nation Books, 2002.
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