Globalizzazione economica, proposte internazionali d’intervento (2)
Continua dall’articolo precedente: Tema Globalizzazione Economica, fallimento della società
Nuove prospettive internazionali: 9 proposte
L’attuale sistema mondiale è troppo diverso nelle sue strutture fondamentali da quello del secondo dopoguerra per permettere un `remake’ di Bandung. A quell’epoca, i non allineati si trovavano in un mondo militarmente bipolare, che impediva un’ingerenza troppo forte dei paesi imperialisti nelle loro attività interne.
Peraltro, questo bipolarismo favoriva l’unione dei partner dei centri capitalistici – Stati Uniti, Europa Occidentale e Giappone – in un unico schieramento. Il conflitto politico ed economico per la liberazione e per lo sviluppo contrapponeva quindi l’Asia e l’Africa a uno schieramento imperialistico unificato. I concetti di sviluppo autocentrato e di `sconnessione’ e le strategie che erano ispirate rispondevano a questa sfida.
Il mondo di oggi è militarmente unipolare. Nel frattempo, fra gli Stati Uniti e alcuni paesi europei sembrano delinearsi conflitti per quanto riguarda la gestione politica di un sistema globalizzato, ormai allineato sui principi del liberalismo. Queste divisioni sono congiunturali e di carattere limitato o preannunciano invece cambiamenti permanenti?
Da questo punto di vista le ipotesi sulle quali si fondano le proposte strategiche dei Paesi del Sud devono essere chiarite, in modo da facilitare una discussione sulla loro eventuale validità.
1. Imperialismo
Prima ipotesi: l’imperialismo è ormai diventato un imperialismo collettivo (della triade). Nel corso delle precedenti fasi di sviluppo della globalizzazione capitalistica, i centri si definivano sempre al plurale. Questi intrattenevano fra loro relazioni di forte concorrenza permanente e di fatto il conflitto tra gli imperialismi occupava un ruolo centrale nella storia contemporanea.
Dal 1980 in poi il ritorno al liberismo globalizzato, obbliga a ripensare la questione della struttura del centro attuale del sistema, poiché gli Stati della triade centrale, almeno sul piano della gestione della globalizzazione economica liberista, costituiscono ormai un blocco apparentemente solido.
La questione fondamentale è quindi quella di sapere se le evoluzioni in questione rappresentano un cambiamento qualitativo stabile – il centro non si definirebbe più al plurale ma avrebbe assunto un aspetto definitivamente `collettivo’ – o se si tratta invece di caratteristiche congiunturali.
Si potrebbe attribuire questa evoluzione alle trasformazioni delle condizioni della concorrenza. Ancora pochi decenni fa, le grandi imprese conducevano le loro battaglie concorrenziali soprattutto sui mercati nazionali, su quello degli Stati Uniti (il più grande mercato nazionale del mondo) o su quelli degli Stati europei (le cui modeste dimensioni li ponevano in condizioni sfavorevoli rispetto agli Stati Uniti). I vincitori di questi `scontri’ nazionali assumevano una posizione dominante sul mercato mondiale.
Oggi la taglia del mercato necessaria per affermarsi nel primo ciclo di lotte si avvicina a 500-600 milioni di `consumatori potenziali’. La battaglia deve quindi essere combattuta sul mercato mondiale e vinta su questo terreno. Solo chi vincerà su questo mercato potrà imporsi anche sui rispettivi terreni nazionali.
L’intensa globalizzazione diventa il principale settore di attività delle grandi imprese. In altre parole nel binomio nazionale/mondiale i termini si sono invertiti: in passato la potenza nazionale comandava l’aspetto mondiale, oggi è il contrario. Di conseguenza le imprese transnazionali, indipendentemente dalla loro nazionalità, hanno interessi comuni nella gestione del mercato mondiale. Questi interessi si sovrappongono ai conflitti permanenti e commerciali che definiscono tutte le forme della concorrenza proprie del capitalismo.
2. Imperialismo colletivo
Seconda ipotesi: nel sistema dell’imperialismo collettivo gli Stati Uniti non dispongono di vantaggi economici decisivi. L’opinione corrente è che la potenza militare degli Stati Uniti costituirebbe solo la punta dell’iceberg, proiettando la superiorità di questo paese in tutti i settori, in particolare economici, politici e culturali. La sottomissione all’egemonismo perseguito da Washington sarebbe quindi inevitabile.
In realtà il sistema produttivo degli Stati Uniti non è affatto il `più efficiente del mondo’. Al contrario, quasi nessuno dei suoi segmenti è certo di avere la meglio sui suoi diretti concorrenti in un mercato realmente aperto. Lo testimonia il deficit commerciale degli Stati Uniti, che aumenta di anno in anno ed è passato da 100 miliardi di dollari nel 1989 a 450 nel 2000.
Inoltre, questo disavanzo riguarda in pratica tutti i settori del sistema produttivo. Anche l’eccedenza di cui beneficiavano gli Stati Uniti nel settore dei prodotti di alta tecnologia, che era di 35 miliardi di dollari nel 1990, è ormai in deficit. La concorrenza fra gli Ariane e i missili della Nasa, Airbus e Boeing testimonia la vulnerabilità del vantaggio americano.
Di fronte all’Europa e al Giappone per le produzioni di alta tecnologia, alla Cina, alla Corea e agli altri paesi industrializzati dell’Asia e dell’America Latina per i manufatti più semplici, all’Europa e al Cono Sud dell’America Latina per l’agricoltura, gli Stati Uniti non potrebbero avere la meglio senza il ricorso a mezzi `extraeconomici’ che violano quei principi di liberismo che essi vorrebbero imporre ai concorrenti.
In realtà, gli Stati Uniti beneficiano di vantaggi comparati solo nel settore degli armamenti, proprio perché questo campo sfugge largamente alle regole del mercato e beneficia del sostegno dello Stato. Probabilmente, questo vantaggio comporta alcune ricadute nel settore civile (Internet ne costituisce l’esempio più noto), ma è anche all’origine di distorsioni che rappresentano svantaggi in molti settori produttivi.
Di fatto, nel sistema mondiale l’economia nordamericana vive parassitariamente a spese dei suoi partner. «Gli Stati Uniti dipendono per il 10per cento del loro consumo industriale dai beni la cui importazione non è coperta dalle esportazioni di prodotti nazionali».
Il mondo produce, gli Stati Uniti (il cui risparmio nazionale è praticamente nullo) consumano. `Il vantaggio’ degli Stati Uniti è quello di un predatore il cui deficit è coperto dal contribuito fornito, in modo più o meno spontaneo, dagli altri.
I mezzi impiegati da Washington per compensare le sue carenze sono di natura diversa: violazioni unilaterali e ripetute dei principi del liberismo, esportazione di armi, ricerca di extraprofitti petroliferi (che presuppongono uno stretto controllo dei paesi produttori, il vero motivo delle guerre in Asia centrale e in Iraq).
Tuttavia la maggior parte del deficit americano è finanziato dai capitali provenienti dall’Europa, dal Giappone, dal Sud (paesi petroliferi ricchi e classi compradore di tutti i paesi del Terzo Mondo, inclusi quelli più poveri), ai quali si aggiungono i prelievi esercitati a titolo di servizio del debito imposto alla quasi totalità dei paesi della periferia del sistema mondiale.
La solidarietà dei segmenti dominanti del capitale transnazionale di tutti i partner della triade è reale, e si esprime con la loro adesione al neoliberismo globalizzato. In questa prospettiva gli Stati Uniti sono visti come i difensori (militari se necessario) di questi `interessi comuni’. Tuttavia Washington non è disposta a `dividere equamente’ i profitti della sua leadership.
Al contrario, gli Stati Uniti cercano di assoggettare i loro alleati e sono disposti a fare solo concessioni minori agli alleati subalterni della triade. Questo conflitto di interessi del capitale dominante è destinato a provocare una rottura nell’alleanza atlantica? Si tratta di un’ipotesi non impossibile, ma poco probabile.
3. Controllo militare del mondo
Terza ipotesi: il progetto di controllo militare del mondo è destinato a compensare le deficienze dell’economia degli Stati Uniti. Questo progetto minaccia tutti i popoli del Terzo Mondo.
Questa ipotesi deriva logicamente dalla precedente. La decisione strategica di Washington di trarre profitto dalla sua schiacciante superiorità militare e, in questa prospettiva, di ricorrere a `guerre preventive’ mira ad annullare la speranza di qualunque `grande nazione’ (come la Cina, l’India, la Russia e il Brasile) o coalizione regionale del Terzo Mondo di accedere allo status di partner effettivo nell’organizzazione del sistema mondiale.
4. Sviluppo del sud
Quarta ipotesi: il Sud può e deve liberarsi dalle illusioni liberali e impegnarsi in forme nuove di sviluppo autocentrato. Attualmente i governi del Sud continuano a battersi per un `vero neoliberismo’, del quale avrebbero accettato `le regole del gioco’ insieme ai paesi del Nord.
Ma i paesi del Sud saranno ben presto costretti a constatare che questa speranza è del tutto illusoria. Dovranno tornare al concetto fondamentale del carattere autocentrato di qualunque forma di sviluppo. Svilupparsi significa prima di tutto definire degli obiettivi nazionali che permettano la modernizzazione dei sistemi produttivi e la creazione delle condizioni interne di progresso sociale.
Dopodiché sarà necessario subordinare le modalità delle relazioni della nazione con i centri capitalistici sviluppati alle esigenze di questa logica. Questa definizione della `sconnessione’ – ben diversa dalla nozione di `autarchia’ – pone questo concetto agli antipodi del principio (liberista) di `aggiustamento strutturale’ alle esigenze della globalizzazione. Un principio che è necessariamente sottoposto agli imperativi esclusivi dell’espansione del capitale transnazionale dominante e che approfondisce le disuguaglianze su scala mondiale.
5. La militarizzazione USA crea disequilibrio internazionale
Quinta ipotesi: l’opzione degli Stati Uniti in favore della militarizzazione della globalizzazione colpisce duramente gli interessi dell’Europa e del Giappone.
Questa ipotesi deriva dalla seconda. L’obiettivo degli Stati Uniti, perseguito, fra l’altro, attraverso la realizzazione del controllo militare di tutte le risorse strategiche del mondo (in particolare il petrolio), è quello di subordinare i partner europei e giapponesi. Di fatto le guerre americane del petrolio sono guerre `antieuropee’. L’Europa (e il Giappone) potrebbero rispondere parzialmente a questa strategia con un avvicinamento alla Russia, capace in parte di fornire loro il petrolio e altre materie prime essenziali.
6. Europa libera dal liberismo
Sesta ipotesi: l’Europa può e deve liberarsi dal virus liberista; un’iniziativa che non può venire dai segmenti del capitale dominante, ma dai popoli.
I segmenti dominanti del capitale, i cui interessi sono difesi dai governi europei, sono i sostenitori del neoliberismo globalizzato e di conseguenza accettano di pagare il prezzo della loro subordinazione al leader nordamericano.
In Europa i popoli hanno una visione diversa del progetto europeo, che vorrebbero più sociale, e delle loro relazioni con il resto del mondo, che vorrebbero gestite sulla base del diritto e della giustizia, come dimostra la condanna – a grande maggioranza – dell’atteggiamento degli Stati Uniti.
Se questa cultura politica umanista e democratica della `vecchia Europa’ riuscirà a prevalere – e non è escluso che ciò accada – allora un avvicinamento autentico fra l’Europa, la Russia, la Cina, l’Asia e l’Africa costituirà la base sulla quale costruire un mondo pluricentrico, democratico e pacifico.
La contraddizione principale fra l’Europa e gli Stati Uniti non riguarda quindi i vari interessi del capitale dominante, ma va ricercata sul terreno delle culture politiche.
In Europa un’alternativa di sinistra è ancora possibile. Questa alternativa imporrebbe una rottura con il neoliberismo (e l’abbandono della speranza illusoria di sottomettere gli Stati Uniti alle sue regole, così da permettere al capitale europeo di battersi sul terreno di una corretta competizione economica) e con la subordinazione alle strategie politiche degli Stati Uniti.
In questo caso il surplus di capitali che l’Europa si limita finora a `investire’ negli Stati Uniti potrebbe essere destinato a un rilancio economico e sociale altrimenti impossibile. Ma se l’Europa dovesse scegliere di dare la priorità al suo sviluppo economico e sociale, la vitalità fittizia dell’economia degli Stati Uniti crollerebbe e la classe dirigente americana sarebbe confrontata da gravi problemi sociali. Di conseguenza la nostra conclusione è: l’Europa sarà di sinistra o non sarà affatto.
Per arrivarci è necessario che gli europei si sbarazzino dell’illusione che la carta del liberismo possa – e debba – essere giocata `onestamente’ da tutti. Gli Stati Uniti non possono rinunciare alla loro scelta in favore di una pratica asimmetrica del liberismo, poiché questo è l’unico mezzo a loro disposizione per compensare le loro stesse carenze: la `prosperità’ americana ha come prezzo la stagnazione delle altre economie.
È qui che si inserisce la `questione europea’. Le `culture politiche europee‘ sono diverse, anche se in generale confliggono con quella degli Stati Uniti.
Esistono in Europa forze politiche, sociali e ideologiche che sostengono – spesso con lucidità – la visione di `un’altra Europa’ (un continente sociale e in buoni rapporti con il Sud). Ma vi è anche la Gran Bretagna che nel 1945 ha fatto la scelta storica di adeguarsi in maniera incondizionata sulle posizioni degli Stati Uniti.
Esistono inoltre le classi dirigenti dell’Europa dell’Est, caratterizzate da una cultura di dipendenza, sottomesse ieri a Hitler, poi a Stalin e oggi a Bush. Vi sono infine i populismi di destra (gli eredi del franchismo in Spagna, la nuova destra in Italia) `filoamericani’. Il conflitto fra queste culture potrà far esplodere l’Europa? Si concluderà con l’accettazione delle posizioni di Washington? Oppure permetterà la vittoria delle culture umaniste e democratiche avanzate?
7. Unione dei popoli del sud
Settima ipotesi: la ricostruzione di un fronte compatto del Sud implica la partecipazione dei suoi popoli.
Negli Stati del Sud raramente i regimi politici al potere sono democratici. Queste strutture autoritarie di potere favoriscono le classi compradore, i cui interessi sono legati all’espansione del capitalismo imperialista globale.
L’alternativa – la costruzione di un fronte dei popoli del Sud – passa attraverso la democratizzazione. Questa democratizzazione necessaria sarà difficile e lunga, ma non potrà certo farsi attraverso la creazione di governi fantoccio, che concedono le risorse dei loro paesi al saccheggio delle società transnazionali nordamericane.
Regimi che di fatto sarebbero ancora più fragili, meno credibili e meno legittimi di quelli ai quali si sostituirebbero sotto la protezione dell’invasore americano. In realtà l’obiettivo degli Stati Uniti, nonostante tutti i loro discorsi ipocriti, non è certo quello di promuovere la democrazia nel mondo.
8. Internazionalismo dei popoli
Ottava ipotesi: un nuovo internazionalismo dei popoli che associ europei, asiatici, africani e americani è quindi possibile.
Questa ipotesi, che deriva dalla precedente e ne costituisce la conclusione, significa che esistono le condizioni che permettano un avvicinamento di tutti i popoli del Vecchio Mondo. Questo avvicinamento si concretizzerebbe sul piano della diplomazia internazionale attraverso l’asse Parigi-Berlino-Mosca-Pechino, rafforzato dallo sviluppo di relazioni amichevoli tra questo asse e il ricostituito fronte afro-asiatico.
Ovviamente questi progressi permetterebbero di contenere l’ambizione sfrenata e criminale degli Stati Uniti. Essi sarebbero costretti ad accettare la coesistenza con nazioni decise a difendere i propri interessi.
Attualmente questo obiettivo deve essere considerato assolutamente prioritario. L’organizzazione del progetto americano condiziona tutte le lotte: nessun progresso sociale e democratico sarà possibile finché il piano americano non sarà bloccato.
9. La diversità culturale
Nona ipotesi: le questioni relative alla diversità culturali devono essere discusse nel quadro delle nuove prospettive internazionali che abbiamo qui definito.
La diversità culturale è una realtà. Ma una realtà complessa e ambigua. Le diversità ereditate dal passato, per quanto legittime, non sono necessariamente sinonimo di diversità nella costruzione di quel futuro che non solo bisogna accettare ma anche promuovere.
Parlare delle sole diversità ereditate dal passato (Islam politico, induismo, confucianesimo, negritude, esclusivismi etnici e così via) è spesso un esercizio demagogico compiuto dai poteri autocratici e compradori. Uno strumento che permette loro al tempo stesso di risolvere la sfida rappresentata dall’universalizzazione della società e di sottoporsi al diktat del capitale transnazionale dominante. Del resto l’insistenza esclusiva su queste eredità divide il Terzo Mondo, contrapponendo in Asia Islam politico e induismo, e in Africa musulmani, cristiani e fedeli di altre religioni.
La ricostituzione di un fronte politico unito del Sud è il mezzo per superare queste divisioni sostenute dall’imperialismo americano. Ma quali sono e cosa possono essere questi `valori universali’ in base ai quali ricostruire il futuro? L’interpretazione occidentalo-centrica e restrittiva di questi valori legittima lo sviluppo disuguale connessa all’espansione capitalistica globalizzata di ieri e di oggi.
Questa concezione deve essere rifiutata. In che modo allora far avanzare concetti autenticamente universali e arricchiti grazie al contributo di tutti? È un dibattito che, pur estraneo al contenuto della nostra analisi, non può essere ignorato.