Alla vigilia del quinto Vertice ministeriale dell’Organizzazione mondiale del commercio (Omc) che si apre a Cancún il 15 settembre, l’«Economist» annuncia felice ormai insperati «segni vitali» da parte del malconcio sacerdote della globalizzazione. E però subito dopo il settimanale inglese è costretto a riconoscere che le «buone notizie» sono solo «poco più di zero» e alla fine ammette che forse si tratta persino di meno, giacché l’assai sventolato accordo dell’ultim’ora sull’agricoltura, il 13 agosto, fra Stati Uniti e Unione Europea, che segna il via libera verso l’appuntamento messicano, non contiene praticamente niente.

Né per quanto riguarda i problemi in sospeso fra loro, né, tanto meno, per quanto riguarda quelli dei paesi in via di sviluppo (Pvs), che si sono trovati di fronte a un testo che, sebbene destinato a diventare centrale al Vertice, non ha nulla a che vedere con quello ufficiale predisposto in seno alla commissione incaricata di trattare il negoziato generale sull’agricoltura.

I programmi (vani) dei WTO

I due ‘egregi’ protezionisti hanno infatti evitato di aggiungere agli impegni solennemente assunti ogni quantificazione e ogni data, sicché il ‘segnale’ riguarda non tanto il merito del negoziato quanto il fatto che la riunione di Cancún è salva, si terrà. E non è poco visto che avevano persino temuto il peggio.

Non è comunque affatto detto che nella assai turistica cittadina del Messico si arrivi a partorire almeno qualcosa di analogo al topolino emerso dall’ultimo Vertice, quello tenuto per prudenza nell’isolato Qatar, a Doha, dove pure si sarebbe dovuta ‘vendicare’ la catastrofe di Seattle: un vaghissimo comunicato congiunto reso pubblico poco prima che tutti se ne andassero, un coniglio tirato fuori dal cappello dal presidente di turno e di cui quasi nessuno era stato precedentemente informato.

Dopo appena sette anni dalla sua enfatica costituzione, l’Omc barcolla. Le invettive di Bossi e Tremonti, che chiedono a gran voce il ripristino dei dazi per difendersi dall’aggressione dei prodotti cinesi, non sono una bizzarria padana. Un rigurgito protezionista si manifesta un po’ dapertutto, a cominciare dai paesi più forti, Stati Uniti in testa, che alzano del 30per cento le tariffe sull’import dell’acciaio, abbattono di ben 4 miliardi di dollari le tasse dei loro esportatori, aumentano ulteriormente gli aiuti alla loro agricoltura, sia pure attraverso l’ingegnoso marchingegno adottato anche dalla Ue: spostandoli dalla ‘blue box’ alla ‘green box’, e cioè trasformandoli in sussidi indiretti e dunque meno ‘visibili’.

Paesi divisi: la globalizzazione è in crisi?

accordi commerciali fra paesi

Si può dire che i due pesi e le due misure -protezione dei mercati forti, rigorosa apertura di quelli più deboli-  siano stati da sempre la regola dell’Omc. Di nuovo, ora, c’è però l’approfondirsi della frattura fra gli stessi potenti che si stanno rinviando l’un l’altro a giudizio difronte al ‘tribunale’ dell’Organizzazione (i panels), per gli Organismi geneticamente modificati (Ogm), le tasse, e quant’altro; e che si assiste alla messa in discussione ormai esplicita della globalizzazione che comunque di qualche regola generale ha pur bisogno per esser accettata.

Quando non si riesce a rispettare neppure quelle che sono state imposte e teorizzate, vuol dire che il sistema perde colpi: la scelta dell’unilateralismo da parte degli Stati Uniti, sia sul piano commerciale che su quello politico e militare, rivela la debolezza ben più che la forza dell’impero che attraversa una crisi più seria di una passeggera congiuntura.

Ed è questo contesto generale, di cui la vicenda dell’Iraq è soltanto la punta dell’iceberg, che appare molto mutato rispetto a quello che accompagnò i precedenti appuntamenti dell’Omc.

La globalizzazione è dunque già in crisi? Non esageriamo: un segno di debolezza non va scambiato per una sconfitta consumata. Sopratutto è bene non rimpiangerla, visto che non ha portato che guai.

Ma è un fatto che il conflitto fra le diverse èlites del capitale mondiale si è acuito e negli Stati uniti c’è disaccordo su come affrontare la crisi fra chi  (i clintoniani) punta alla ripresa economica mondiale per dar mercati stabili all’espansionismo americano (anche a costo di qualche sacrificio nell’immediato, per esempio nei confronti della Cina), e chi (Bush) vede avversari dappertutto e preferisce la via spiccia del protezionismo.

A questo va aggiunta la ormai scoperta delusione dei Pvs che pure, a Doha, approvando una generica dichiarazione d’intenti (l’Agenda per lo sviluppo) si era sperato di ammansire per ricucire le crepe di Seattle.

Il fallimento della liberalizzazione economica

I dati del fallimento della liberalizzazione sono in effetti ormai sul tappeto: dal 1988 al 1999 gli aiuti all’agricoltura nei paesi dell’Ocse sono passati da 275 a 326 miliardi di dollari; nel ‘sensibile’ settore del tessile-abbigliamento -per il quale i paesi sviluppati si erano impegnati a eliminare le quote d’importazione entro 10 anni- arrivati oltre la metà del termine si registra la cancellazione delle quote solo per 13 prodotti su 750 negli Stati uniti, di 14 su 219 nell’Ue, di 29 su 295 in Canada.

Mentre ai più forti si dà il tempo di ‘aggiustarsi’ all’apertura dei mercati, ai deboli si chiede tutto e subito. E così proprio nel decennio che avrebbe dovuto celebrare l’incoronamento del libero scambio si registra nei paesi in via di sviluppo un aumento delle importazioni dal 28 al 37 per cento (ma del 50 se si guarda alle importazioni di alimenti dei paesi meno sviluppati), mentre le loro esportazioni sono rimaste stagnanti.

Per questo i Pvs hanno cominciato a puntare i piedi e a rifiutare l’apertura di ogni nuovo negoziato che i forti vorrebbero far loro accettare almeno non prima che gli altri siano giunti a soddisfacente conclusione.

Rinviato a Doha, lo scontro a Cancún sarà anche su questo, in particolare sui ‘Singapore issues‘ (che non sono nemmeno commerciali e pertanto l’Omc non dovrebbe nemmeno impicciarsene): investimenti, competizione, appalti pubblici, facilitazioni del commercio.

Di questi il più pericoloso è proprio quello degli investimenti che ripropone quanto fu respinto in sede Ocse nel 1998 grazie alla prima mobilitazione antiglobal, quella contro il Mai (Multilateral Agreement on Investments): esclusione di ogni controllo sugli investimenti nei paesi stranieri e dunque totale sottrazione di ogni sovranità a paesi che da questi capitali fluttuanti possono esser devastati come ha già chiaramente dimostrato la crisi, qualche anno fa, nei Nic (New Industrialized Countries, le ‘tigri’) del Sudest asiatico.

Gli accordi fra Stati prima del WTO

L’Europa -che, come sempre tiene a presentare al mondo una faccia meno brutale, anche se, sopratutto quando si tratta di commercio, non ha mai il coraggio di una posizione alternativa- ha presentato una proposta ‘soft’ rispetto a quella più radicale degli Stati Uniti, i quali però, in compenso, spingono meno perché a Cancún venga adottata una linea: temono che in una sede multilaterale potrebbe risultarne una troppo morbida e compromettere così gli accordi bilaterali che nel frattempo stanno stringendo con i vari paesi dell’America Latina.

Col Cile c’è già la firma, per gli altri cercano di strapparlo nel quadro dell’Alca (l’Area di libero scambio delle Americhe) il cui nuovo Vertice negoziale si terrà peraltro a novembre a Miami, poco dopo Cancún.

Anche i Trips non avrebbero dovuto finire nel gran cesto dell’Omc, ma lì ormai sono in nome della tendenza a rendere questo organismo il centro dell’universo istituzionale mondiale.

Il braccio di ferro riguarda una questione che ha enorme portata: ogni anno, ci dice l’Organizzazione mondiale della sanità, 17 milioni di persone muoiono perché non hanno accesso ai medicinali il cui costo è, in paesi a reddito bassissimo, proibitivo (2 giorni di salario per gli antibiotici necessari a curare una polmonite in Europa, 1 mese in Africa).

All’origine di questi prezzi sta naturalmente il brevetto che copre anche le procedure di manifattura così impedendo la produzione cosiddetta generica, che potrebbe esser effettuata localmente. (In Brasile, dove a un certo momento hanno cominciato a produrre generici contro l’Aids, il prezzo del medicinale è caduto del 79per cento e le morti si sono dimezzate).

Il brevetto viene, come è noto, giusitificato con la necessità delle case farmaceutiche di coprire le spese della ricerca; ma bisogna tener conto che solo l’8per cento dei medicinali viene venduto in Africa e Asia dove pure vive il 67per cento della popolazione mondiale. E dunque misure speciali per questi continenti non porterebbero certo all’arresto della ricerca, che peraltro ignora le malattie tropicali -solo il 10per cento vi è dedicato- sebbene queste siano il 90per cento delle malattie del mondo.

Il 13 agosto gli Stati Uniti, dopo aver pestato i piedi per otto mesi, hanno cercato di concludere quella che è stata chiamata la «saga della salute» presentando per Cancún, una proposta assolutamente riduttiva: accettiamo, hanno detto, una sospensione del brevetto ma solo in caso di grave epidemia.

I Pvs hanno protestato contro la ‘concessione’, considerata irrisoria, aggiungendo che, fra l’altro, molti dei brevetti sono il risultato dell’appropriazione indebita di piante e procedimenti della medicina tradizionale contadina, del tutto ignorati dagli accordi sulla proprietà intellettuale. È cioè un furto.

I Paesi del Sud che agiscono senza il WTO

Quel che di nuovo potrebbe esserci a Cancún è proprio una maggiore fermezza e unità da parte dei Pvs, la stragrande maggioranza (sia pur non omogenea) dei 146 membri dell’Omc.

La guerra all’Afghanistan e all’Iraq ha certo intimidito i più fragili, ma ha anche aumentato i risentimenti e la sfiducia. A renderli meno isolati e più combattivi ha poi certo giocato la mobilitazione no-global di questi ultimi anni, senza paragone più grande di quella che si ebbe a Seattle (nella città messicana è programmato un corposo Forum e una manifestazione di protesta a carattere mondiale). Che ha positivamente interagito con molti intellettuali, non solo con quelli tradizionalmente vicini al movimento, ma anche con quelli che hanno solo recentemente defezionato dal campo liberista: da Gunther Sachs a Jagdish Bhagwati a Joseph Stiglitz, allo stesso Soros.

Fra i paesi più poveri sono così nate una serie di aggregazioni che aiutano i singoli e debolissimi Stati a liberarsi dai ricatti europei o americani:

  • l’African Group, che si riunisce ormai regolarmente e nel suo ultimo incontro ha rivendicato, contro chi vorrebbe la rapida liberalizzazione dei servizi -forse il principale negoziato già in corso da tempo presso l’Omc e che riguarda settori chiave come l’acqua, l’energia, i trasporti, le telecomunicazioni, l’audiovisivo, i rifiuti e persino (è l’ultima richiesta americana) l’istruzione-, il diritto a politiche pubbliche in grado di garantire sicurezza alimentare e sociale, integrità alle comunità locali, la protezione delle risorse genetiche ecc., tutte cose che (dicono) dovrebbero rientrare fra le eccezioni alla liberalizzazione già previste dalla stesa Omc all’Art. 27.2 che riguarda ordine pubblico e moralità.
  • C’è poi il gruppo degli Lmc (Like Minded Countries), i paesi a orientamento simile (India, Egitto, Indonesia, Kenia, Malesia, Jamaica, Repubblica Dominicana, Cuba);
  • i più tradizionali Ldc (Last Developed Countries), i paesi meno sviluppati e la vecchia Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo), organismo semi ufficiale dell’Onu, in cui opera il ‘Gruppo dei 77’ una sorta di lobby di 133 paesi in via di sviluppo.

Fra questi alcuni hanno assunto una leadership nella contestazione perché più forti e dunque più autonomi rispetto alle pesantissime pressioni esercitate nei confronti dei loro ministri e ambasciatori: il Brasile, finora presente solo come coda dei potenti produttori di grano, il gruppo Cairns, ha deciso di assumere un ruolo di punta per dar voce collettiva ai paesi più poveri.

Lula stesso ha convocato alla vigilia di Cancún una riunione con i ministri degli Esteri dell’America Latina e un centinaio di Ong, ponendo al centro dell’alternativa non più l’agricoltura in generale, di cui fanno parte anche i grandi produttori di alcuni paesi del Sud, ma l’azienda familiare, che ha interessi diversi e coinvolge il 67per cento della popolazione mondiale (dati Oxfam).

Nella nuova coalizione proposta da Lula c’è anche l’Africa del Sud, che incontra tuttavia non poche diffidenze fra i paesi più poveri che gli rimproverano di aver deluso le speranze e che già molti definiscono «subimperialismo continentale». Il suo ministro del commercio, Erwin, viene accusato di essere tutt’altro che un utile ponte fra Africa e OMC, quanto piuttosto un cuneo dell’Omc verso l’Africa, un «mercante di consenso», non a caso nominato dalle potenti gerarchie dell’organizzazione Friends of the Chair (Amici del presidente), una figura istituzionale di coadiuvante, sempre esposto alla cooptazione.

Una posizione combattiva è stata invece assunta più volte dal Kenia, dall’Egitto e sopratutto dalla grande India. Silenziosa, invece, la Cina, che si tiene distante dai Pvs così come dai paesi avanzati, e in effetti occupa una posizione assolutamente particolare, essendo il solo paese che riesce ad ottenere effettivi vantaggi dalle esportazioni di prodotti industriali anche tecnologicamente avanzati (in un solo anno quelle verso l’Unione Europea sono aumentate del 48per cento), sia pure pagando il sacrificio dei suoi contadini, lasciati esposti all’invasione delle multinazionali.

Paesi del Sud inascolati anche ufficialmente

globalizzazione

È un fatto comunque che alla vigilia di Cancún tutti questi gruppi (cui si sono aggiunti ufficialmente anche gli Acp (paesi legati da uno speciale trattato alle loro ex metropoli, e cioè all’Unione europea)) hanno stabilito un’alleanza e presentato alla riunione della Hod (i capi delegazione) due testi.

In cui si dichiara che al Vertice non verrà accettata l’apertura di nessun nuovo negoziato (ci si riferisce in particolare ai ‘Singapore issues’) e si pone sul tappeto il gigantesco problema della trasparenza: il funzionamento assolutamente antidemocratico dell’Omc.

«Solo una manciata di membri dell’Omc -aveva commentato all’indomani di Doha il ministro del commercio estero indiano Murasoli Maran- è stata invitata a partecipare alle riunioni della ‘green room’ (quelle riservate e non ufficiali in cui in realtà si prendono le decisioni reali).

Anche dopo le discussioni del 13 e 14 novembre, dopo 38 ore, sono apparsi testi belli e pronti che nessuno aveva tempo di esaminare sul serio. Chi li aveva preparati? E quando? E poi alla fine, mancava un quarto d’ora alle 38, come il coniglio tirato fuori dal cappello del mago, è apparso un testo che è stato detto essere quello finale».

Questa nuova e più astuta strategia è stata chiamata ‘Harbinson‘, dal nome dell’ex ambasciatore di Hong Kong diventato presidente dell’importantissima Commissione agricoltura poi nominato, senza alcuna consultazione, capo di gabinetto del nuovo direttore generale, il thailandese Supashai Panitchpakdi.

Essa consiste nell’affidare un ruolo determinante ai c.d. ‘facilitatori’, presidenti e ‘amici dei presidenti’, selezionati da una piccola élite, che dovrebbero essere solo moderatori del dibattito e invece hanno usurpato il potere, non previsto dalle regole Omc, di presentare propri testi su cui si decide, mentre quelli introdotti dai membri minori spariscono nel nulla.

«Con 146 membri sarebbe impossibile che tutti decidessero», ha candidamente confessato l’ambasciatore della Nuova Zelanda. «Sarebbe improduttivo».

Il fatto è che i più deboli vengono imbrogliati nelle ultime ventiquattro ore, quelle del giorno di prolungamento deciso alla fine, quando tutti hanno già in mano le valige.

Profittando della mancanza di traduzioni, del fatto che i più non vengono invitati alle riunioni che contano o del fatto che non viene comunicato dove e quando queste si tengono e che ai Vertici sono presenti i ministri che nei complicatissimi documenti si orientano ancor meno dei loro esperti e infine che i paesi più poveri non possono permettersi di tenere i propri esperti a Ginevra, dove i ricchi mantengono stuoli di avvocati e diplomatici. (Su 146 membri dell’Omc, ben 40 non posseggono nemmeno una rappresentanza permanente a Ginevra).

Non solo: alle mini-ministeriali, che fra un Vertice e l’altro si moltiplicano per trovare accordi fra i paesi forti, i paesi poveri non vengono generalmente invitati nonostante le decisioni li coinvolgano pesantemente. Non sono stati invitati nemmeno a quella in cui si è discusso dell”agenda sviluppo’.

E per Cancún Panitchhpakdi ha già annunciato la formula che intende adottare: flessibilità, un termine che nasconde solo l’intento di non tener conto delle regole, una prassi che, come si sa favorisce, solo i più forti.

Così, tre settimane prima di Cancún non c’è ancora un testo preliminare generale. «Nessun governo di un paese democratico potrebbe funzionare come l’esecutivo dell’Omc.» Nonostante le sue tante magagne l’Omc resta comunque il centro dell’universo istituzionale internazionale, per via del potere cogente delle sue decisioni, che è il riflesso della mercantilizzazione della società, che conferisce a questo organismo maggiore importanza che alla stessa Onu.

A tal punto che persino il Vaticano -che pure non risulta soggetto di un vivace import-export- ha un ambasciatore di alto rango presso l’istituzione. Quello che ha appena terminato il suo mandato è stato nominato nientemeno che arcivescovo di Dublino, una delle diocesi principali della Chiesa romana.

La soluzione mondiale alle problematiche del commercio: proposte

Perché la liberalizzazione dia una chance a tutti i paesi in via di sviluppo essi dovrebbero poter esportare, cosa che o non sono in grado di fare o fanno con minori vantaggi, visto che, nel migliore dei casi, i loro prodotti contengono una quota assai minore di valore aggiunto. Scambiare un po’ di prodotti agricoli contro servizi ricchi non è un grande affare.

Questa è la ragione di fondo per la quale, nonostante tutto, gli Stati Uniti e l’Europa si terranno con cura l’Omc, anche se ormai privilegiano i più flessibili e meno pubblici accordi bilaterali o regionali. A loro in ogni caso conviene, anche politicamente, oltre che commercialmente, privare i paesi poveri della libertà di adottare una propria strategia graduata e differenziata, che li aiuti a ‘deconnettersi’ dagli infernali meccanismi che la globalizzazione impone loro.

Ma quanto può durare un sistema che si fonda su squilibri così grandi e su così incredibili irrazionalità? «Se qualcuno dei tempi dell’impero romano fosse ancora in circolazione -ha osservato Walden Bello- è sicuro che direbbe agli americani: no, non si gestisce così un impero!».

Alla vigilia di Cancún sarebbe bene ricordare l’incidente del Tunnel del Monte Bianco: rimasero intrappolati e poi inceneriti decine e decine di camion che marciavano nei due sensi. Trasportavano (si scoprì dopo) tutti le stesse cose, bruciando chilometri e vite in nome di una forsennata concorrenza. Un camion trasportava carta igienica. Come se in Italia, o in Francia, non se ne possa produrre.

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