Questa nota si rivolge sia ai responsabili della società civile che seguono i dibattiti (in particolare quelli sull’agricoltura) nell’ambito dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) sia ai funzionari dei paesi del Sud che hanno la responsabilità di condurre questi negoziati.
Ecco le tematiche messe in evidenza:

  • 1. l’analisi delle vere sfide dalle quali sono confrontate le società del Sud: in altre parole, l’avvenire delle loro società contadine, che raccolgono almeno metà dell’umanità, cioè quasi tre miliardi di persone, non rientra nelle priorità del Wto;
  • 2. al contrario, le questioni inserite nel programma del Wto sono state scelte e formulate per favorire l’apertura dei mercati del Sud alle esportazioni agricole in eccedenza del Nord;
  • 3. accanto a questo obiettivo comune ai paesi del Nord, si inserisce una controversia fra gli Stati Uniti e l’Unione europea;
  • 4. gli argomenti presi in considerazione dal Wto, che sembrano avere qualche importanza per questo o quel gruppo dei paesi del Sud, rappresentano, di fatto, solo problemi secondari;
  • 5. il metodo, infine, che ha permesso questa ‘selezione’ dei problemi e che pretende di avere un carattere ‘scientifico’ non ha in realtà alcun fondamento logico.

In compenso cercheremo di mettere in luce i principi di una strategia alternativa che i paesi del Sud dovrebbero adottare nei loro ‘negoziati’ al Wto e altrove, così da contribuire alla costruzione di ‘un’altra globalizzazione’ in grado di rispondere alle aspettative dei popoli.

Il divario fra l’agricoltura moderna e quella contadina nel Sud del mondo

agricoltura del sud del mondo

Il vero obiettivo: l’avvenire delle società contadine del Sud.
In primo luogo bisogna accennare a quella che definiamo la ‘nuova questione agraria’, alla prova della quale si trova il mondo contemporaneo.

L’agricoltura capitalistica è retta dal principio del rendimento del capitale e presente quasi esclusivamente in America del Nord, in Europa, nel Cono Sud dell’America Latina e in Australia.

Ma dà occupazione solo a poche decine di milioni di agricoltori, che non possono più essere considerati dei veri ?contadini’. La loro produttività, che è funzione della motorizzazione (di cui hanno quasi l’esclusiva a livello mondiale) e della superficie di cui ogni azienda dispone, oscilla tra 10.000 e 20.000 quintali di cereali-equivalente per lavoratore e per anno.

Gli agricoltori contadini rappresentano invece quasi metà dell’umanità: tre miliardi di persone. Questi agricoltori si dividono a loro volta tra chi ha beneficiato della rivoluzione verde (fertilizzanti, pesticidi e sementi selezionate) anche se poco motorizzata, con una produzione che oscilla tra 100 e 150 quintali per lavoratore, e chi, non avendo ancora potuto approfittare di questa rivoluzione, ha una produzione che si colloca intorno ai 10 quintali per agricoltore.

Da un punto di vista comparativo, il divario tra la produttività dell’agricoltura più moderna e quella dell’agricoltura contadina povera è diventato enorme rispetto a mezzo secolo fa.
Il ritmo di progresso della produttività nell’agricoltura ha ampiamente superato quello delle altre attività, provocando una riduzione dei prezzi relativi da 5 a 1.

In queste condizioni se si ‘integrasse l’agricoltura’ come ormai impone l’Organizzazione mondiale del commercio a partire dalla Conferenza di Doha (novembre 2001) alle regole generali della ‘competizione’, assimilando i prodotti agricoli e alimentari alle ‘altre merci’, quali potrebbero essere le conseguenze rispetto alle enormi condizioni di disuguaglianza fra l’agro-business e l’agricoltura contadina?

Non appena avessero accesso alle vaste estensioni di terra che sono loro necessarie (togliendole alle economie contadine e scegliendo probabilmente i terreni migliori) e ai mercati dei capitali per procurarsi le attrezzature necessarie, altre venti milioni di aziende agricole moderne potrebbero produrre l’essenziale di quello che i consumatori urbani solvibili comprano ancora all’agricoltura rurale.

Ma in questo caso che succederebbe ai miliardi di produttori contadini non competitivi? Sarebbero inesorabilmente destinati a scomparire nello spazio relativamente breve di pochi decenni.
Che cosa diventerebbero questi miliardi di esseri umani che riescono a essere più o meno autosufficienti, poveri tra i poveri (i tre quarti della popolazione denutrita del mondo vivono nelle campagne)? Nell’arco di cinquant’anni uno sviluppo industriale più o meno competitivo, anche nell’ipotesi estremamente ottimistica di una crescita continua del 7per cento l’anno per i tre quarti dell’umanità, non potrebbe assorbire neanche un terzo di questa riserva.

Le possibili soluzioni

Allora, che fare?
È necessario accettare la conservazione di un’agricoltura contadina per gran parte del Ventunesimo secolo. Non per nostalgia romantica, ma semplicemente perché la soluzione del problema passa attraverso il superamento delle logiche del liberismo.

Bisogna quindi immaginare delle politiche di regolazione dei rapporti fra il ‘mercato’ e l’agricoltura contadina. A livello nazionale e regionale queste regolazioni, specifiche e adattate alle condizioni locali, devono proteggere la produzione nazionale, assicurando così l’indispensabile sicurezza alimentare delle nazioni e neutralizzando il problema alimentare. In altre parole, separando i prezzi interni da quelli del cosiddetto mercato mondiale.

Inoltre, dette regolazioni devono, attraverso una progressione lenta ma costante della produttività rurale, permettere di tenere sotto controllo il trasferimento della popolazione dalle campagne verso le città.

Per quanto riguarda il mercato mondiale, la regolazione auspicabile passa attraverso accordi interregionali, ad esempio tra l’Europa da un lato e l’Africa, il mondo arabo, la Cina e l’India dall’altro, in grado di garantire uno sviluppo capace di integrare anziché escludere.

Le critiche alle proposte del WTO

Eppure questi temi fondamentali non sono presenti nel dibattito che si svolge al Wto. Un dibattito che considera solo le questioni degli aiuti all’agricoltura e dei loro effetti sulle condizioni di una ‘corretta concorrenza‘ (fair competition) sui mercati mondiali dei prodotti agricoli.

L’obiettivo dichiarato del Wto è l’apertura dei mercati del Sud alle esportazioni agricole del Nord.
Ma, indipendentemente da qualsiasi aiuto supplementare alle esportazioni, i vantaggi assoluti di cui beneficiano le agricolture del Nord, se si considerano gli enormi divari produttivi, sono tali che questa apertura può solo aggravare drammaticamente i problemi delle società rurali senza fornire loro alcuna soluzione. Anche se si realizzasse la promessa apertura dei mercati del Nord alle esportazioni agricole del Sud (il che è molto dubbio), essa porterebbe benefici sicuramente molto minori rispetto ai danni che provocherebbe.

Il Wto afferma che la scelta di occuparsi solo dei negoziati sulle sovvenzioni che influiscono sulle ragioni di scambio del commercio internazionale risponde alla sua esplicita vocazione: trattare esclusivamente il commercio con esclusione degli altri problemi, come, per esempio, quello dello sviluppo.

È un’affermazione non credibile. L’apertura incontrollata del commercio estero modella i sistemi produttivi, in particolare quelli dei partner più deboli, e cancella il loro diritto allo sviluppo e alla sua necessaria protezione. In questo caso il Wto utilizza la logica dei ‘due pesi, due misure’: da un lato accetta la legittimità delle politiche dei paesi sviluppati, introducendo distinzioni artificiali fra i diversi segmenti di queste politiche, dall’altro rifiuta questo diritto agli altri paesi.

Gli aiuti all’agricoltura nel mondo contemporaneo

politiche economiche del wto

Le misure di sostegno alla produzione agricola e ai redditi degli agricoltori costituiscono un insieme di provvedimenti apparentemente molto complesso, governato da una vera e propria giungla di testi nei quali i non addetti ai lavori finiscono inevitabilmente per perdersi.

Tuttavia, questo insieme di misure ‘nazionali’ (Stati Uniti, Canada, Giappone e altri paesi) o ‘comunitarie’ (Unione europea), costituiscono politiche relativamente coerenti (cioè mezzi efficaci per raggiungere gli obiettivi che si propongono), anche se qui o là l’evoluzione storica e i conflitti di interesse privati hanno potuto comportare delle incoerenze parziali.

Si può certo giudicare queste politiche (i loro obiettivi) da punti di vista diversi, difenderli o criticarli, ma di fatto esistono. Si può anche discutere sull’efficacia dei mezzi adoperati per raggiungere questi obiettivi. Ma lo si può fare seriamente solo se ci si pone sul terreno dell’economia reale, e non su quello dell’immaginaria economia ‘liberale’.

Secondo il Wto nel 1995 il volume globale delle spese pubbliche ‘agricole’ contabilizzate ammontava a 286 miliardi di dollari. Almeno il 90per cento di queste spese è effettuato dai soli paesi del centro del sistema mondiale, quelli della triade (Stati Uniti e Canada, Unione europea, Giappone).

Per i paesi ricchi (ad esempio, i membri dell’Ocse) questo ammontare può sembrare considerevole. E di fatto lo è se lo si riferisce al numero degli agricoltori che ne beneficiano (volume di aiuto medio per azienda agricola) e ad altri criteri di misura (aiuto medio per ettaro coltivato, per tonnellata di cereale o di carne prodotta, ecc.); lo è anche se lo si mette in rapporto al valore delle produzioni specifiche prese in considerazione o al valore complessivo della produzione agricola o, ancora, se lo si riferisce ai redditi degli agricoltori che ricevono gli aiuti o degli agricoltori nel loro insieme.

Il Wto ‘classifica’ le spese pubbliche per l’agricoltura in quattro categorie, dette scatole rossa, arancione, blu e verde. Il criterio di questa classificazione è il grado di influenza di queste spese sulle produzioni e soprattutto sui ‘prezzi’ dei prodotti agricoli (prezzo di produzione, prezzo di vendita degli agricoltori, prezzo al consumo). Nelle scatole rosse e arancione il Wto mette quelle spese che ritiene abbiano un impatto su questi prezzi, mentre mette nelle scatole blu e verde quelle che non ne avrebbero.

In totale si ha:

  • nelle scatole rosse e arancione: 124 miliardi di dollari
  • b) nelle scatole blu e verdi: 162 miliardi di dollari

Questa classificazione è di fondamentale importanza poiché le cosiddette misure di ‘liberalizzazione’ dell’agricoltura, che considerano i prodotti agricoli come semplici prodotti commerciali, riguardano solo le spese delle prime scatole (rosse e arancione), che dovrebbero essere progressivamente ridotte sulla base di scadenze fissate dai negoziati presso il Wto.

Gli Stati rimangono quindi liberi di mantenere il volume delle loro spese classificate blu e verdi o, addirittura, di aumentarle. Un’eventualità che di fatto si è verificata molto spesso negli ultimi dieci anni.

Tuttavia, la divisione delle spese tra le due coppie di scatole contrappone in maniera discutibile gli Stati Uniti da un lato e l’Unione europea, il Canada e il Giappone dall’altro. Infatti nelle scatole rossa e arancione si ritrova solo il 12per cento delle spese pubbliche degli Stati Uniti destinate all’agricoltura, contro rispettivamente il 55per cento per l’Unione europea, il 48per cento per il Canada e il 54per cento per il Giappone.

In altre parole, nella prospettiva di liberalizzazione raccomandata dal Wto lo sforzo principale dovrebbe essere fatto dall’Europa, dal Giappone e dal Canada e non dagli Stati Uniti.

Le definizioni scelte per definire questa classificazione sono state il prodotto di lunghi ‘negoziati’ condotti nell’ambito semisegreto della Camera di commercio internazionale (il club delle multinazionali) e di scambi di opinioni tra l’Unione europea e gli Stati Uniti che non sono noti al di fuori del cerchio ristretto dei funzionari che vi hanno partecipato.

Specifiche al WTO per Stati Uniti e Europa

Ma al di là dell’opacità che circonda questa ‘classificazione’, rimane un interrogativo importante: perché gli europei hanno accettato un ‘metodo’ che li mette automaticamente in una condizione di inferiorità nei confronti dei loro partner-concorrenti principali, gli Stati Uniti? Un mistero che rimane senza risposta, a meno che non si voglia considerare l’aspetto politico delle esigenze ‘dell’imperialismo collettivo della triade’.

In ogni caso il conflitto fra gli Stati Uniti e l’Unione europea, che ha un ruolo principale nelle discussioni nel Wto, non dovrebbe interessare il Sud. Indipendentemente dal fatto che l’apertura dei loro mercati favorisca uno o l’altro dei due partner in questione, il suo effetto devastante sulle economie contadine del sud rimane invariato.

Il criterio sul quale si fonda la classificazione del Wto non è credibile.
In realtà, come scrive Jacques Berthelot (L’agricoltura, tallone di Achille della globalizzazione [1]), le quattro scatole rappresentano una cosa sola: una «scatola nera».
Il semplice esame di tutte le spese poste artificialmente in una o nell’altra delle quattro scatole del Wto permette di capire la logica della politica agricola seguita, i suoi obiettivi e i mezzi utilizzati.

La loro divisione in icategorie’ considerate diverse è il prodotto di quelle pseudoanalisi tipiche dell’economia astratta del mondo immaginario. Pseudoanalisi che sono da considerare allo stesso livello delle discussioni sul ‘sesso degli angeli’!

In realtà tutte queste spese hanno un impatto evidente sulla produzione, sul volume, sull’efficienza e, quindi, sui prezzi. Del resto il loro obiettivo è di averlo. E di fatto lo hanno.

L’influenza della distribuzione dei redditi sui prezzi dell’agricoltura

Alcuni esempi di spese classificate ‘verdi’ lo illustrano bene.

  • L’aiuto alimentare ai bisognosi, molto importante negli Stati Uniti (più di 20 miliardi di dollari) e senza il quale il 10per cento della popolazione di questo paese sarebbe condannata alla fame, crea un mercato supplementare per la produzione agricola (poiché senza di essa la domanda dei bisognosi rimarrebbe insolvibile).

Questa produzione supplementare e i prezzi ai quali lo Stato la compra dagli agricoltori hanno un’influenza evidente sull’agricoltura. Si può difendere la concessione di questo aiuto, o, ad esempio, la distribuzione gratuita di latte ai bambini nelle scuole, con argomenti di solidarietà sociale o con la migliore efficienza in termini di lavoratori in buona salute, ma non si può pretendere che questa forma di spesa pubblica sia senza effetti sulla produzione e sui prezzi.

  • Alcune sovvenzioni anch’esse classificate verdi (o blu), hanno come obiettivo dichiarato di limitare la produzione (ridurre la sovrapproduzione) o di compensare la mancata valorizzazione delle terre arabili e coltivabili; altre invece hanno il compito di assorbire queste sovrapproduzioni con la costituzione di riserve private o pubbliche di acquisto a prezzo fisso. Le une e le altre hanno un impatto sulla produzione e sui prezzi.

Anche gli aiuti in apparenza meno ‘agganciati’ alle produzioni e ai prezzi non sono in realtà così ininfluenti.

  • Pensiamo alle sovvenzioni agli agricoltori per aumentare i loro redditi, ad esempio per equipararli a quelli dei lavoratori urbani (lavoratori dipendenti-classi medie) e che sono concesse indirettamente (deduzioni di imposta sul reddito) o direttamente.

Le equazioni dell’equilibrio generale (alle quali noi economisti tradizionali facciamo costante riferimento), illustrano bene la stretta connessione tra il sistema di distribuzione dei redditi e quello dei prezzi relativi, poiché una redistribuzione del reddito modifica la struttura della domanda.
La logica dell’economia convenzionale porta quindi alla conclusione che questi interventi hanno un evidente impatto sui prezzi!

Il concetto quindi di ‘connessione’ e di ‘sconnessione’, che distinguerebbe da un lato le diverse forme di spese pubbliche, dall’altro la produzione e i prezzi, non si basa su alcun serio fondamento. Deriva dall’alchimia dell”economia astratta’ e di fatto serve da argomento di circostanza, facilmente manipolabile quando si cerca di legittimare o di delegittimare questo o quell’obiettivo di politica economica.

Le politiche agricole dei paesi del Nord (il dumping)

agricoltura moderna

La natura e la portata delle politiche dei paesi del Nord, in particolare degli Stati Uniti e dell’Unione europea, sono affrontate dal Wto nello stretto quadro definito dall’impatto che gli aiuti e le spese pubbliche destinate all’agricoltura avrebbero sul commercio mondiale dei prodotti agricoli.

In realtà queste politiche hanno tutt’altra portata e costituiscono il mezzo con il quale il Nord costruisce nell’agricoltura (come nelle altre attività economiche) i suoi vantaggi assoluti sugli eventuali concorrenti del Sud. I vantaggi del Nord sono in questo settore (come negli altri) strutturali.

Inoltre il successo stesso delle politiche agricole adottate in Europa (in particolare la Politica agricola comunitaria, Pac) e negli Stati Uniti è alla base delle capacità produttive di questi paesi, che superano largamente la domanda che i loro mercati interni possono assorbire.

Di conseguenza, l’Unione europea e gli Stati Uniti sono diventati oggi esportatori aggressivi delle loro sovrapproduzioni. La volontà di ‘aprire’ i mercati del Sud alle loro esportazioni agricole e alimentari, di cui il Wto si è fatto portavoce, deriva proprio da questo obiettivo.

È in questo quadro che bisogna esaminare le procedure di ‘dumping‘ che si aggiungono ai vantaggi strutturali dell’agricoltura del Nord. Queste procedure sono diverse e assumono forme più o meno evidenti:

  • a) visibili: le sovvenzioni dirette alle esportazioni;
  • b) meno visibili: la collocazione sui mercati internazionali delle riserve private e pubbliche, destinate ad assorbire le eccedenze di produzione e la loro vendita a discutibili prezzi marginali definiti ‘prezzi reali’, cioè quelli del ‘mercato mondiale’;
  • c) non confessate ma comunque reali: ‘l’aiuto alimentare’ è spesso mascherato con operazioni definite ‘umanitarie’ ma contribuisce a indebolire le capacità dell’agricoltura locale di contrastare le situazioni di deficit.

Si può discutere sulla validità delle scelte adottate dagli Stati Uniti e dall’Unione europea, che le dispensa da effettuare quelle revisioni delle loro politiche agricole che sarebbero necessarie per non ‘sovrapprodurre’ in permanenza (una critica che del resto riguarda molti paesi del Nord).

Ma i paesi del Sud hanno comunque il diritto, difficilmente contestabile, di reagire con misure di protezione, talvolta molto dure (rialzo generalizzato dei dazi o contingentamento), ad aggressioni altrettanto dure. Da questo punto di vista, il caso del cotone è esemplare.

In alcuni casi il dumping del Nord ha permesso di coprire a basso costo il deficit alimentare strutturale del Sud. Tuttavia il pericolo è che questa situazione rischi di ritardare gli sforzi di risanamento necessari nel campo delle politiche agricole nazionali.

Le politiche agricole in conflitto tra loro, quelle del Nord e quelle che il Sud potrebbe sviluppare (cosa che la grande maggioranza di questi paesi non fa o fa molto poco), comportano molti altri fattori rispetto a quelli che si ritrovano nelle voci «prezzi (del mercato mondiale)», «tariffe doganali» e «sovvenzioni dirette all’esportazione».

La voce ‘prezzi mondiali’, come abbiamo spesso ricordato in passato, non rappresenta affatto i ‘veri prezzi’. Si tratta al contrario di prezzi marginali, poiché il commercio mondiale dei prodotti agricoli e alimentari riguarda solo una piccola parte delle produzioni (intorno al 10per cento). Di conseguenza, l’impatto delle politiche agricole attribuisce a questi ‘prezzi’ il carattere di prezzi non rappresentativi dei costi reali; sono invece i prodotti di situazioni contingenti, che testimoniano la loro estrema volatilità.

Ancora una volta la definizione di ‘veri prezzi’ che a questa voce attribuiscono i liberali e il Wto non è fondata su alcuna analisi scientifica e permette qualunque tipo di manipolazione.

I paesi del Sud possono difendersi dalle politiche agricole del Nord?

Ma anche altri aspetti delle politiche aggressive del Nord devono essere presi in considerazione. Da questo punto di vista i paesi del Sud devono energicamente rifiutare il monopolio che l’agro-business vuole accrescere con il pretesto della «protezione della proprietà intellettuale e industriale», imponendo le sementi selezionate prodotte dalle imprese di questo settore.

Questo argomento rappresenta inoltre uno degli aspetti del grande problema dell’ecologia e dell’ambiente. Le pratiche sostenute dai liberisti in questo settore vanno dal saccheggio puro e semplice delle conoscenze secolari accumulate dai contadini, alla distruzione della biodiversità o al sostegno di scelte potenzialmente molto pericolose (ad esempio gli Ogm).

Indubbiamente gli americani, gli europei (e gli altri) hanno tutto il diritto di costruire le politiche nazionali o comunitarie che hanno scelto. Hanno il diritto di organizzare i sistemi di redistribuzione del reddito che ritengono conformi alle loro esigenze di solidarietà sociale.

Da questo punto di vista diverse costruzioni politiche possibili sono o possono essere oggetto di dibattiti e di lotte politiche all’interno delle loro società. Questo elemento fa parte integrante del concetto elementare di democrazia.

Chiedere lo smantellamento di queste politiche in nome di un liberismo mitico che non è mai esistito e che non esisterà mai non ha alcun senso. Come si può chiedere ai paesi più sviluppati, in nome del vantaggio accumulato grazie al commercio mondiale nel settore dell’istruzione, della formazione, della ricerca e dell’innovazione, di adeguarsi al livello dei meno avanzati?

Eppure la strategia scelta dai governi del Sud è proprio quella di chiedere al Nord «di rispettare le regole del gioco del liberismo». Ed è la stessa che ci ‘raccomandano’ la Banca mondiale e altri istituti internazionali. Forse proprio perché è e sarà inefficace, dato che il ‘vero liberismo’ è solo una costruzione immaginaria.

Competitività delle imprese o competitività delle nazioni?

Riabilitare il diritto alla protezione e alle politiche nazionali (o regionali).
Il discorso liberista considera solo la competitività delle imprese, che si tratti di aziende agricole, di imprese industriali e commerciali, di attività di servizio o di diversi settori dell’economia (cerealicoltura, industria automobilistica, ecc.). Ma ignora l’unico vero concetto di competitività, quello delle nazioni (dei loro sistemi produttivi), che guida in gran parte (anche se non completamente) la competitività dei settori produttivi e delle imprese.

A monte quindi delle differenze di competitività delle imprese di questo o quel settore di attività vi sono le diversità fra nazioni. La cosiddetta teoria dei vantaggi comparati in materia di commercio internazionale, basata su elementi statici, ignora la dinamica delle trasformazioni che interessano la competitività delle nazioni e quindi la loro posizione nella gerarchia del sistema mondiale.

Tuttavia la competitività disuguale delle nazioni è proprio il risultato di queste ‘spese pubbliche’ di varia natura, che modellano il quadro nel quale operano i produttori (infrastrutture, qualità della formazione, capacità di innovazione tecnica e così via) e quello che associa i sistemi di produzione e i sistemi di distribuzione del reddito e la loro redistribuzione, sapendo che queste due dimensioni del mondo reale sono inscindibili, così come lo sono economia e politica (quest’ultima intesa come l’insieme dei rapporti di forza fra i diversi partner sociali e le lotte condotte per trasformarli).

Abbiamo esaminato in precedenza l’importanza delle spese pubbliche riguardanti l’agricoltura dei paesi del Nord. È tuttavia utile ricordare che questo volume globale di spese pubbliche è molto meno consistente se lo si confronta con quello che caratterizza altri settori.

  • Le sole spese militari dirette, ad esempio, rappresentano più del doppio degli aiuti all’agricoltura (hanno superato i 600 miliardi di dollari), alle quali bisogna aggiungere gli enormi aiuti di cui beneficiano le industrie degli armamenti e, indirettamente, alcuni settori della produzione civile (in particolare nel campo aeronautico, aerospaziale e informatico).
  • Inoltre, i volumi della spesa pubblica destinata all’insieme delle infrastrutture sono ancora più impressionanti.
  • Lo stesso si può dire per i capitali destinati alle spese cosiddette sociali (istruzione e formazione, ricerca, sanità, previdenza sociale) che influenzano in larga misura la ‘competitività delle nazioni’.

È noto ormai che l’insieme delle spese pubbliche rappresenta una parte consistente del Pil dei paesi capitalisti sviluppati per non meno del 40per cento. Un fattore che mina profondamente la credibilità del discorso liberista, fondato su un’economia immaginaria ‘senza Stato’ o quasi!

A sua volta la competitività disuguale dei sistemi nazionali (o dei sistemi regionali quando raggiungono un livello credibile) guida i rapporti internazionali e modella la globalizzazione. Di fatto, tutte le nazioni partecipano a questo processo. Da tempo ormai non esistono paesi che siano ‘fuori della globalizzazione’.

Ma in questo sistema non tutti hanno uguali vantaggi di posizione. Da questo punto di vista alcuni paesi sono ‘aggressivamente aperti’, mentre altri subiscono ‘passivamente l’apertura’. A questo proposito diventa impossibile separare, nell’ambito delle varie strutture e politiche nazionali, quelle che interesserebbero ‘solo’ la competitività dei sistemi produttivi (e in questo modo i settori produttivi e le imprese) senza avere ripercussioni sui rapporti internazionali, da quelle che interesserebbero proprio questi rapporti.

List [2], nella prima metà dell’Ottocento, aveva perfettamente capito la natura della sfida; aveva descritto i difetti dei «vantaggi comparati» e aveva compreso che questi erano determinati storicamente e non «definiti» in maniera stabile una volta per tutte. La sua proposta andava ben oltre la «protezione delle industrie nascenti» e costituiva una prima espressione di quella che ho definito la «strategia di sconnessione».

In altre parole una strategia basata non su «un’uscita autarchica dalla globalizzazione», ma sulla costruzione prioritaria di una politica nazionale (o regionale) capace di migliorare la competitività del sistema produttivo e dei suoi segmenti particolari e, al tempo stesso, in grado di definire le strutture di ‘protezione’ (in senso lato del termine e non esclusivamente tariffarie) nei confronti dei partner più forti (e quindi aggressivi) del sistema mondiale.

Da questo punto di vista la lotta per la sconnessione diventa quella per ‘un’altra globalizzazione’ (diversa da quella raccomandata e imposta dal liberismo, che può solo consolidare e approfondire i ‘vantaggi’ dei più forti).

Quello che dobbiamo chiedere, per affrontare la vera sfida che abbiamo di fronte, è il diritto di fare come gli altri (i potenti) hanno sempre fatto e continuano a fare (anche se il discorso liberista ignora questa realtà): il diritto alla costruzione di politiche nazionali e regionali efficaci e alla protezione di questa costruzione.

paesi wto

Il liberismo e l’economia pura di mercato

Al di là della mitologia liberista, gli Stati capitalisti sono sempre intervenuti, e intervengono ancora, nella regolazione della riproduzione capitalistica, ad esempio attraverso la maggiore o minore importanza attribuita alle ‘spese pubbliche’.

Questi interventi sono determinanti e la teoria di un sistema economico capitalista (di mercato) puro, in grado cioè di esistere ‘senza Stato’, non ha alcun fondamento scientifico e sostituisce all’analisi del capitalismo reale quella di un sistema immaginario.

Il pensiero unico contemporaneo (detto liberista) è basato sull’idea assurda e misteriosa che il sistema ‘dell’economia pura di mercato’ avrebbe il potere di rivelarci quello che sono i ‘veri prezzi’ (della produzione, mercantile per definizione, dei ‘fattori della produzione’, dei salari, interessi del capitale, tasso di profitto e del cambio estero), cioè quei ‘prezzi’ che assicurerebbero ‘l’equilibrio generale’ in un’economia di mercato deregolamentato, senza distorsioni provocate dagli interventi pubblici (un risultato di fatto impossibile).

Dietro questo discorso parascientifico si profila un obiettivo, legittimato dalla sua ideologia: deregolamentare, cioè dare al capitale (che per definizione è ai posti di comando nella vita economica delle società capitalistiche) un esclusivo potere di decisione. Così il capitale, invece di espellere lo Stato e di vietarne gli interventi, seleziona quelli che desidera da quelli che rafforzano i suoi mezzi di dominio sulla società e massimizzano i profitti e vieta gli altri, cioè quelli che riducono i suoi poteri e danno agli altri protagonisti della vita sociale la possibilità di far valere, almeno in parte, i loro interessi specifici.

La mitologia dei ‘veri prezzi’ costituisce, fra l’altro, la base delle ‘dimostrazioni’ parascientifiche secondo le quali qualunque ‘protezione’ in materia di commercio internazionale sarebbe sfavorevole alla ‘massimizzazione della soddisfazione dei consumatori‘.

Il termine stesso di protezione diventa tabù, sinonimo di irrazionalità se non di stupidità. La ‘dimostrazione’ si basa su un metodo che riduce le società, nazionali e mondiali, a un universo di ‘individui’ uguali. In questo modo gli interessi sociali collettivi di gruppi, di classi e di nazioni finiscono per scomparire.

Le nazioni sono considerate uguali, alla stessa stregua degli individui che compongono un paese: non vi sono né oligopoli né lavoratori, ma solo dei ‘produttori venditori’.

Raramente la realtà è stata così travisata, ignorando completamente qualunque riferimento alla disuguaglianza dello ‘sviluppo’ delle nazioni e al fatto che tutte le società ricche sono tali proprio perché si sono protette e continuano a farlo.

Le necessarie risposte alternative al WTO

Al di là dell’esame delle questioni all’ordine del giorno del Wto e della conferenza di Cancún e delle loro soluzioni specifiche, è necessaria per quanto riguarda gli scambi mondiali una visione alternativa d’insieme delle politiche agricole del Nord e del Sud.

I paesi del Sud non hanno i mezzi per affrontare questa situazione attraverso la semplice imitazione delle politiche agricole adottate nel Nord, anche se questo potesse sembrare loro possibile (il che è molto dubbio). Non hanno i mezzi per ‘sovvenzionare’ le loro produzioni agricole. Inoltre la loro capacità di redistribuzione dei redditi è limitata a causa del modesto livello dei redditi e delle finanze pubbliche.

Ciò non significa che questi paesi non abbiano bisogno di una politica di sviluppo della loro agricoltura, in particolare per accelerarne il progresso produttivo e per controllare i conseguenti cambiamenti sociali (evitare la disgregazione delle campagne e lo sviluppo delle bidonvilles urbane). Queste politiche devono inoltre integrare degli obiettivi nazionali, in primo luogo l’autosufficienza alimentare (a livello nazionale o regionale).

Ovviamente le politiche nazionali e/o regionali proposte e i mezzi per la loro protezione devono essere a loro volta oggetto di dibattiti critici estremamente trasparenti (che mettano in evidenza gli interessi che si vogliono privilegiare). In altre parole devono essere oggetto di un dibattito politico nel senso più nobile del termine.

A questo scopo una forma di protezione può essere positiva o negativa secondo i casi. La protezione è negativa quando vuole proteggere attività inefficienti (scarsamente competitive), mantenendole nella loro inefficienza. È positiva invece quando protegge i processi di trasformazione che permettono alle attività produttive di migliorare la loro efficienza (o di ridurre la loro inefficienza).

La scelta di una strategia che, inserendosi nella logica del discorso liberista, mirasse a ‘smantellare’ i sistemi nazionali dei paesi dominanti, in modo da rafforzare la competitività apparente dei paesi del Sud negli scambi mondiali, è votata al fallimento. Al contrario, accettare la vera sfida dalla quale le nazioni del Sud sono confrontate significa innanzi tutto mettere in campo la volontà di costruire delle politiche nazionali efficienti e di assumerne la loro protezione. È questa l’unica strategia possibile.

I paesi del Sud hanno il diritto e il dovere di proteggere queste politiche attraverso i mezzi più efficaci a loro disposizione, non solo attraverso la scelta di dazi doganali, ma anche con l’adozione di eventuali misure quantitative (contingentamenti, ecc.). Ma accanto a questi mezzi diretti, la protezione dello sviluppo dell’economia nazionale comporta anche politiche nazionali coerenti in tutta una serie di settori, compresa la gestione della moneta nazionale e del cambio.

La globalizzaizone alternativa

Queste idee sono da inserire nell’ambito di un progetto alternativo (la globalizzazione alternativa) e si sono fatte strada nell’opinione pubblica internazionale e hanno trovato conferma nei colloqui che si sono avuti nel corso dell’ultima conferenza dei non allineati (Kuala Lumpur, febbraio 2003).

Nel campo della gestione economica del sistema mondiale si vanno quindi delineando le linee di un’alternativa che il Sud potrebbe difendere collettivamente, poiché gli interessi di tutti i paesi che ne fanno parte sono in questo caso convergenti.

Vediamo di cosa si tratta:

  • Si ripresenta l’idea di un controllo dei trasferimenti internazionali di capitali.
    Di fatto l’apertura dei conti capitali, imposta dal Fondo monetario internazionale (Fmi) come nuovo dogma del ‘liberismo’, persegue un solo obiettivo: facilitare il trasferimento in massa di capitali verso gli Stati Uniti per coprire il crescente deficit americano, a sua volta frutto delle carenze dell’economia degli Stati Uniti e della loro strategia di controllo militare mondiale.Non vi è alcun interesse per i paesi del Sud ad agevolare l’emorragia dei loro capitali e i danni provocati da eventuali raid speculativi. Di conseguenza, la sottomissione a tutti gli imprevisti del ‘cambio flessibile’, prodotti dall’apertura dei conti capitali, deve essere rimessa in discussione.Al loro posto, l’istituzione di sistemi di organizzazioni regionali capaci di assicurare una stabilità relativa dei cambi meriterebbe di essere oggetto di ricerche e di dibattiti sistematici da parte dei non allineati e del gruppo dei 77 [3].In fin dei conti nella crisi finanziaria asiatica del 1997 la Malesia ha preso l’iniziativa di ristabilire il controllo dei cambi e ha vinto la sua battaglia. Lo stesso Fmi è stato costretto a riconoscerlo.
  • Ritorna l’idea di regolazione degli investimenti esteri.
    I paesi del Terzo Mondo non intendono (anche se in alcuni casi è successo) chiudere le porte a tutti gli investimenti esteri. Al contrario, gli investimenti diretti sono sollecitati, ma le modalità di questi investimenti sono oggetto di riflessioni critiche alle quali alcuni ambienti governativi del Terzo Mondo non sono insensibili.In stretta relazione con questa regolazione è ormai contestata la concezione dei diritti di proprietà intellettuale e industriale che il Wto vuole imporre. Si è capito che questa concezione, invece di favorire una concorrenza ‘trasparente’ sui mercati aperti, mira al contrario a rafforzare i monopoli delle multinazionali.
  • Il debito è considerato economicamente insostenibile e la sua legittimità è stata rimessa in discussione.
    Si afferma il rifiuto unilaterale dei debiti più onerosi e illegittimi e la creazione di un diritto internazionale del debito, che ancora non esiste.Un’analisi generalizzata dei debiti permetterebbe di mettere in evidenza una proporzione significativa di debiti illegittimi, troppo onerosi o addirittura illegali. I soli interessi pagati per il servizio di questi debiti hanno raggiunto volumi tali da rendere di fatto proibitivo il risarcimento del debito stesso e fanno apparire queste operazioni come una forma di vero e proprio saccheggio selvaggio.Per arrivare a questo risultato l’idea che i debiti esteri debbano essere regolati da una legislazione giusta e corretta, sull’esempio dei debiti interni, deve essere al centro di una campagna di sensibilizzazione del diritto internazionale. Sono proprio le lacune del diritto che hanno portato a delegare questi problemi ai rapporti di forza. Rapporti che permettono di far passare per legittimi debiti internazionali che, nell’ambito di una legislazione nazionale (quando il creditore e il debitore appartengono allo stesso paese e dipendono dalla sua giustizia), porterebbero il debitore e il creditore davanti a un tribunale per ‘associazione a delinquere’.
  • Infine molti dei paesi del Sud si rendono nuovamente conto di non potere più fare a meno di una politica nazionale di sviluppo agricolo in grado di proteggere le società contadine, sempre più disintegrate per effetto della ‘nuova concorrenza’ promossa dal Wto in questo settore, e di preservare la sicurezza alimentare nazionale.

In conclusione, vorrei sottolineare l’importanza della ricostruzione di un quadro istituzionale capace di rifondare la solidarietà del Sud. Ciò rafforzerebbe considerevolmente la combattività di questi paesi all’interno del Wto (poiché gli Stati del Sud hanno deciso di parteciparvi) e nelle altre istituzioni di gestione della globalizzazione (in particolare il Fmi).

Anche se difficilmente si può fare affidamento su queste istituzioni, fatte su misura dalle potenze dominanti per rafforzare i loro mezzi di dominio e non certo per favorire lo sviluppo, concetto quest’ultimo che non è mai stato accettato dall’ideologia liberale.

 

 

* Il testo che qui pubblichiamo costituisce la nota critica, resa pubblica da Samir Amin in occasione della Conferenza del Wto che si tiene dal 10 al 14 settembre a Cancún, con il titolo Sostegni pubblici e protezione degli agricoltori: Falsi problemi e vere sfide.
note:
1 Jacques Berthelot, L’agriculture, talon d’Achille de la mondialisation, Editions de l’Harmattan, Préfaces de Jean-Marc Boussard et José Bové, Editions de l’Harmattan, Paris (NdRM).
2 Friedrich List, (1789-1846) economista tedesco, che teorizzò (Il sistema nazionale di economia politica, 1841) i vantaggi del protezionismoper lo sviluppo dei paesi industrialmente arretrati (NdRM).
3 Il ?Gruppo dei 77′ (G77) si è costituito il 15 giugno 1964, alla fine della Sessione dell’Unctad (Conferenza delle Nazioni Unite per il commercio e lo sviluppo, poi Organizzazione mondiale del commercio) di Genova per realizzare uno stabile coordinamento fra i paesi in via di sviluppo di Africa, Asia, America del Sud che unifichi e rafforzi la rappresentanza dei loro interessi nelle organizzazioni economiche mondiali. In seguito, sulla base della Carta di Algeri (1967), al Gruppo hanno aderito altri 56 paesi (NdRM). (Traduzione di Andrea De Ritis)
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