Il fallimento della solidarietà

Oggi la solidarietà dei paesi del Sud – che si espresse con forza a Bandung (1955) e a Cancun (1981) sul piano politico (non allineamento) e su quello economico (posizioni comuni adottate dal Gruppo dei 77 nelle istituzioni dell’Onu, in particolare nell’Unctad, la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo) – sembra non esistere più.

L’integrazione dei paesi del Sud, gestita dalle tre istituzioni internazionali che avrebbero dovuto curarne gli interessi (il Wto, la Banca mondiale e il Fmi), è in gran parte responsabile dell’indebolimento dei 77, della Tricontinentale (che non esiste più) e del Movimento dei non allineati (che tuttavia sta dando segni di una possibile ripresa).

La causa di questa situazione va ricercata nell’aggravarsi delle disuguaglianze di sviluppo nel Gruppo dei 77, con la presenza, da un lato, di paesi in via di una consistente industrializzazione – che hanno scelto di operare sul mercato mondiale in concorrenza con i paesi della triade (Stati Uniti, Europa e Giappone) e del Sud – e, dall’altro, dei paesi ormai definiti del Quarto Mondo.

I paesi del Sud sembrano non avere più gli stessi interessi da difendere collettivamente. Tuttavia questa considerazione è vera solo se si considera il breve periodo e se si tiene conto unicamente delle condizioni immediate alla base dei `vantaggi’ che si possono ottenere – o si crede di poter ottenere – dalla globalizzazione liberale.

La situazione è molto diversa sul lungo periodo, poiché il capitalismo realmente esistente non ha molto da offrire né alle classi popolari del Sud né alle stesse nazioni, impedendo di fatto il `recupero’, cioè la loro affermazione come partner paritari dei centri (la triade) nell’organizzazione del sistema mondiale.

Ma, ancora una volta, è attraverso la politica che si avvia la presa di coscienza dell’esigenza di solidarietà dei paesi del Sud. L’arroganza degli Stati Uniti e il lancio del loro progetto di `controllo militare del pianeta’, con l’organizzazione continua di guerre `made in Usa’, pianificate e decise unilateralmente da Washington, sono all’origine della forte presa di posizione del recente vertice dei non allineati (Kuala Lumpur, febbraio 2003).

lavoratore terzo mondo povero

L’epoca di Bandung (1955-1981): i Paesi Non Allineati

Nel 1955 i principali capi di Stato dei paesi asiatici e africani, dopo aver riconquistato la loro indipendenza politica, si riunivano per la prima volta a Bandung.

I leader asiatici e africani erano tutt’altro che uguali. Le correnti politiche e ideologiche che rappresentavano, la loro visione del futuro della società da costruire e dei rapporti con l’Occidente costituivano tutti argomenti di grande divergenza.

Tuttavia un progetto comune li univa e dava un senso alla loro riunione. Nel loro programma comune figurava la realizzazione della decolonizzazione politica dell’Asia e dell’Africa. Inoltre tutti ritenevano che l’indipendenza politica riconquistata dovesse rappresentare solo un mezzo per raggiungere il fine, rappresentato dalla conquista della liberazione economica, sociale e culturale.

Al di là delle differenze, i non allineati pensavano che l’edificazione di un’economia e di una società sviluppata indipendente (anche se nell’ambito di un’interdipendenza globale) implicasse un certo livello di `conflittualità’ con l’Occidente dominante (l’ala più radicale riteneva necessario mettere fine al controllo dell’economia nazionale da parte del capitale dei monopoli stranieri).

Questi paesi, preoccupati di preservare l’indipendenza riconquistata, rifiutavano di entrare nel gioco militare mondiale e di servire da base all’accerchiamento dei paesi socialisti che l’egemonismo americano cercava di imporre. Erano convinti che rifiutare l’inserimento nello schieramento militare atlantico non comportasse di fatto la necessità di mettersi sotto la protezione del suo avversario, cioè dell’Unione sovietica.

Da ciò il `neutralismo’, il `non allineamento‘, definizione del gruppo e dell’organizzazione che sarebbe uscita dalla conferenza di Bandung.

Di vertice in vertice, nel corso degli anni sessanta e settanta, il `non allineamento’ riunì la quasi totalità dei paesi dell’Asia, dell’Africa, oltre a Cuba, passando progressivamente dal carattere di un fronte di solidarietà politica con le lotte di liberazione e di rifiuto dei patti militari, a quello di un `cartello di rivendicazioni economiche nei confronti del Nord’.

In questo contesto i non allineati si sarebbero alleati con i popoli se non proprio con gli Stati dell’America Latina, che non hanno mai aderito alla Tricontinentale.

Il gruppo dei 77 (l’insieme del Terzo Mondo) traduceva questa nuova larga alleanza del Sud. La battaglia per un `nuovo ordine economico internazionale‘, avviata nel 1975, dopo la guerra del Kippur, dell’ottobre 1973, e la revisione dei prezzi del petrolio, ha rappresentato al tempo stesso il momento più significativo di questa evoluzione e la sua fine, ufficializzata a Cancun (1981) con il diktat di Reagan e dei suoi alleati europei.

L’economia politica del non allineamento, per quanto spesso implicita e vaga, può essere così sintetizzata:

  • la volontà di sviluppare le forze produttive, di diversificare le produzioni (in particolare di industrializzare);
  • la volontà di assicurare allo Stato nazionale la direzione e il controllo del processo;
  • la convinzione che i modelli `tecnici’ costituiscono dei dati `neutrali’ che si possono soltanto riprodurre sia pure mantenendone il controllo;
  • la convinzione che il processo non ha bisogno innanzi tutto dell’iniziativa popolare ma solo del sostegno popolare agli interventi dello stato;
  • la convinzione che il processo non è fondamentalmente contraddittorio con la partecipazione agli scambi nel sistema capitalistico mondiale, anche se può provocare dei conflitti momentanei con quest’ultimo.

L’espansione capitalistica degli anni 1955-70 ha facilitato i successi di questo progetto. Tuttavia questo periodo della storia del non allineamento sembra essersi definitivamente chiuso, quando il sistema globale – a partire dal 1980 – è entrato in una fase di ridefinizione basato su una nuova globalizzazione neoliberale.

Ma è realmente così? Di fatto le resistenze alla globalizzazione si rafforzano ovunque nel mondo, tanto nel Nord quanto nel Sud. In questo contesto è lecito immaginare un rinnovamento possibile del non allineamento, che diventerebbe «un non allineamento nei confronti della globalizzazione liberale e dell’egemonismo degli Stati Uniti».

Non allinearsi alla globalizzazione

L’ultimo vertice dei non allineati (Kuala Lumpur, febbraio 2003) ha probabilmente sorpreso qualche cancelleria meno attenta, convinta che nella nuova globalizzazione liberale il Sud non avesse più alcun potere.

Sottomessi ai devastanti piani di riaggiustamento strutturale, presi alla gola dai prelievi del servizio del debito, governati da borghesie compradore, i paesi del Sud sembravano non essere più in grado di rimettere in discussione l’ordine capitalistico internazionale, al contrario di quello che avevano cercato di fare tra il 1955 e il 1981.

Ma ecco che, tra la sorpresa generale, i non allineati condannano la strategia imperialistica di Washington, le sue mire sfrenate e criminali di controllo militare del mondo, il suo sviluppo basato sullo scatenamento continuo di guerre `made in Usa’, pianificate e decise unilateralmente dagli Stati Uniti.

I paesi del Sud prendono coscienza che la gestione neoliberista della globalizzazione non ha nulla da offrire loro e che, per questo motivo, è costretta per imporsi a ricorrere alla violenza militare, facendo così il gioco del progetto americano. Il movimento diventa un non allineamento nei confronti della globalizzazione liberale e dell’egemonismo degli Stati Uniti.

Il crollo del `socialismo’ sovietico, l’evoluzione intrapresa dalla Cina, la deriva dei regimi populisti del Terzo Mondo avevano fatto accettare l’idea secondo la quale `non esistevano alternative’. Era necessario inserirsi nel contesto del neoliberalismo globalizzato, giocare la partita e, se possibile, cercare di trarne qualche vantaggio. Non esistevano alternative. Ma in pochi anni l’esperienza ha smentito le ingenue speranze riposte in questa logica che si definiva `realista’.

Le linee direttrici di una grande alleanza in base alla quale la solidarietà tra i popoli e gli Stati del Sud potrebbe essere ricostruita.

wto

La rinascita di un Fronte del Sud: due proposte

A partire dalle posizioni adottate da alcuni Stati del Sud e dalle idee che si sono fatte strada, si assiste alla definizione di alcune linee direttrici del possibile rinnovamento di un `fronte del Sud’.
Queste posizioni riguardano tanto il settore politico quanto la gestione economica della globalizzazione.

  • Sul piano politico: condanna del nuovo principio della politica degli Stati Uniti (`la guerra preventiva‘) e richiesta di eliminare tutte le basi militari straniere in Asia, Africa e America Latina.

Le regioni scelte da Washington per i suoi interventi militari (ininterrotti dopo il 1990) sono state:

  • il Medio Oriente arabo – Iraq, e Palestina (attraverso il sostegno incondizionato a Israele);
  • i Balcani (Jugoslavia, nuovi insediamenti degli Stati Uniti in Ungheria, Romania e Bulgaria);
  • l’Asia Centrale e il Caucaso (Afghanistan; Asia centrale e Caucaso ex sovietici).

Gli obiettivi perseguiti da Washington presentano aspetti diversi:

  • il controllo delle più importanti aree petrolifere del mondo, così da fare pressione sull’Europa e sul Giappone per ridurli allo status di alleati subalterni;
  • la creazione di basi militari americane permanenti nel cuore del mondo (l’Asia Centrale è a uguale distanza da Parigi, Johannesburg, Mosca, Pechino e Singapore), così da preparare future `guerre preventive’ rivolte in primo luogo contro i grandi paesi capaci di imporsi come partner con i quali si è costretti a `negoziare’ (la Cina innanzi tutto, ma anche la Russia e l’India).

La realizzazione di questo obiettivo implica la creazione nei paesi della regione di regimi fantoccio sostenuti dalle armate degli Stati Uniti. A Pechino, a Mosca e a Delhi diventa sempre più chiaro che le guerre `made in Usa’ costituiscono in definitiva una minaccia diretta più contro la stessa Cina, la Russia e l’India che contro i loro nemici dichiarati, come l’Iraq.

In questa situazione si fa strada la richiesta sempre più pressante di un ritorno alla posizione di Bandung – nessuna base americana in Asia e in Africa – anche se nelle circostanze attuali i non allineati hanno accettato di non sollevare il problema dei protettorati americani nel Golfo Persico.

I non allineati hanno adottato in questo caso una posizione vicina a quella che la Francia e la Germania hanno difeso in Consiglio di Sicurezza, contribuendo così ad accentuare l’isolamento diplomatico e morale dell’aggressore. A sua volta, il vertice franco-africano ha rafforzato l’idea di alleanza che si va delineando fra l’Europa e il Sud. Questo vertice infatti, con la presenza degli Stati anglofoni del continente, non può essere più considerato quello della `Françafrique‘.

paesi non allineati

 

  • Nei settori della gestione economica del sistema mondiale: si vanno delineando le linee di un’alternativa che il Sud potrebbe difendere collettivamente, poiché gli interessi di tutti i paesi che ne fanno parte sono in questo caso convergenti.

    • Sta ritornando in campo l’idea che i trasferimenti internazionali di capitali debbano essere controllati.
      Di fatto, l’apertura di prestiti in conto capitale, imposti dall’Fmi come un dogma del `liberismo’, mira a raggiungere un solo obiettivo: facilitare il trasferimento in massa dei capitali verso gli Stati Uniti per coprire il crescente deficit americano, risultato delle carenze dell’economia degli Stati Uniti e dello sviluppo della loro strategia di controllo militare del mondo.Non vi è alcun interesse dei paesi del Sud a favorire questa emorragia dei loro capitali e i danni devastanti provocati dalle operazioni speculative. Di conseguenza, l’esposizione ai vari rischi del `cambio flessibile‘, che è una conseguenza logica dell’apertura di prestiti in conto capitale, deve essere rimessa in discussione.Contro questi rischi, l’istituzione di sistemi di organizzazioni regionali in grado di assicurare una relativa stabilità dei cambi dovrebbe essere l’oggetto di ricerche e dibattiti sistematici tra i non allineati e i 77.Del resto, nella crisi finanziaria asiatica del 1997 la Malesia ha preso l’iniziativa di ristabilire il controllo dei cambi e ha vinto la propria battaglia. Lo stesso Fmi è stato costretto ad accettarla.
    • Ritorna l’idea di regolazione degli investimenti esteri. Di certo, i paesi del Terzo Mondo non pensano, come è avvenuto talvolta in passato, di chiudere le porte a tutti gli investimenti stranieri. Al contrario, gli investimenti diretti sono sollecitati.Ma le modalità di accoglienza sono di nuovo l’oggetto di riflessioni critiche alle quali alcuni ambienti governativi del Terzo Mondo non sono insensibili.In stretta relazione con questo tipo di regolamentazione è contestata la concezione dei diritti di proprietà intellettuale e industriale che il Wto vuole imporre. Ci si è resi conto che questa nozione, invece di favorire una concorrenza `trasparente’ sui mercati aperti, mira a rafforzare i monopoli delle imprese trasnazionali.
    • Molti paesi del Sud hanno nuovamente compreso che non possono fare a meno di una politica nazionale di sviluppo agricolo – una politica che tenga conto della necessità di proteggere il mondo rurale dal devastante processo di disintegrazione, accelerato per effetto della `nuova concorrenza’ che il Wto vuole promuovere in questo settore – e di preservare la sicurezza alimentare nazionale.In effetti l’apertura dei mercati di prodotti agricoli, che permette agli Stati Uniti, all’Europa e a pochi paesi del Sud (quelli del Cono Sud dell’America) di esportare le loro eccedenze nel Terzo Mondo, minaccia gli stessi obiettivi di sicurezza alimentare nazionale, mentre le produzioni agricole del Terzo Mondo incontrano difficoltà insormontabili sui mercati del Nord.Questa strategia liberista, che disintegra le società rurali e che accentua la migrazione dalle campagne verso le bidonvilles urbane, provoca la ripresa di lotte contadine nel Sud.La questione agricola è spesso discussa, soprattutto nel Wto, con l’ottica esclusiva delle sovvenzioni concesse dall’Europa e dagli Stati Uniti alle produzioni dei loro agricoltori e alle loro esportazioni agricole. Questo interesse esclusivo per il problema del commercio mondiale dei prodotti agricoli non tiene conto delle principali questioni cui abbiamo accennato in precedenza.

      Comporta inoltre curiose ambiguità, poiché invita i paesi del Sud a difendere tra gli applausi della Banca mondiale (ma da quando la Banca mondiale ha cominciato a difendere gli interessi del Sud contro quelli del Nord?) posizioni ancora più liberiste di quelle adottate dai governi del Nord.

      Nulla però impedisce di `sconnettere’ le sovvenzioni accordate agli agricoltori dai propri governi (dopo tutto, se difendiamo il principio della ridistribuzione del reddito nei nostri paesi, non vedo perché questo diritto non possa riguardare anche i paesi del Nord!) da quelle destinate a sostenere il dumping delle esportazioni agricole del Nord.

    • Il debito pubblico non è più sentito solo come economicamente insostenibile: è la sua stessa legittimità a essere messa in discussione.Si delinea una rivendicazione diretta a rifiutare in modo unilaterale debiti esosi e illegittimi, e prende forma l’idea di un diritto internazionale del debito – degno di questo nome -, che ancora non esiste.Un’analisi generalizzata del debito permette infatti di evidenziare una proporzione significativa di debiti illegittimi odiosi e talvolta usurari.I soli interessi pagati per il servizio del debito hanno raggiunto livelli tali che l’esigenza – giuridicamente fondata – del loro rimborso annullerebbe di fatto il debito in questione e farebbe apparire tutta questa operazione come una forma assolutamente barbara di saccheggio.

      Per riuscire in questa impresa, l’idea che i debiti esteri debbano essere regolati da una legislazione normale e regolamentata, sull’esempio delle norme che disciplinano i debiti interni, deve diventare l’oggetto di un’iniziativa che si inserisca in una prospettiva di progresso del diritto internazionale e di rafforzamento della sua legittimità.

      Come sappiamo, è proprio l’assenza di norme giuridiche in questa materia che ne ha permesso la sua regolazione attraverso brutali rapporti di forza. Questi rapporti permettono di far passare per legittimi debiti internazionali che, se fossero materia di diritto interno (qualora il creditore e il debitore appartenessero alla stessa nazione e dipendessero dalla sua giustizia), configurerebbero l’ipotesi di reati assimilabili all’`associazione a delinquere’.

L’articolo continua su la Globalizzazione Economica Proposte

L’attuale sistema mondiale è troppo diverso nelle sue strutture fondamentali da quello del secondo dopoguerra per permettere un `remake’ di Bandung. A quell’epoca, i non allineati si trovavano in un mondo militarmente bipolare, che impediva un’ingerenza troppo forte dei paesi imperialisti nelle loro attività interne.

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